Sir Wniston Churchill diceva che gli italiani prendono le partite di calcio come fossero guerre, e le guerre come fossero partite di calcio. Sulla prima parte dell’affermazione ci possiamo anche stare, ma la seconda suona un po’ come una stupidaggine: se fosse vera, noi italiani avremmo vinto molte più guerre. A giocare a calcio, infatti, siamo nettamente i migliori. Meglio di noi solo i circensi brasiliani che – va detto – ci hanno battuto due volte in finale (una ai rigori), ma hanno sempre incontrato il favore del pubblico, della stampa, degli arbitri e in tempi più recenti anche l’aiuto determinante di mamma Nike.
Il pingue Sir Winston, d’altronde, non sarebbe nuovo alla corbelleria: egli stesso, con grande sincerità, ammetteva che rimangiarsi la parola non gli ha mai provocato l’indigestione. E infatti l’ha rimangiata quella parola, quando nel 1942, al cospetto del parlamento inglese, ha detto: “Bisogna davvero inchinarsi davanti ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore” – era l’anno dei mondiali, quelli del ‘42, la regina del deserto era Rommel (“il soldato tedesco ha stupito il mondo, il soldato italiano ha stupito quello tedesco”).
L’accostamento guerra-calcio è una bestemmia, lo so, ma a guardarci bene qualche convergenza c’è. C’è tutta una letteratura e una cinematografia che hanno celebrato lo sport più amato del mondo, accostandolo alla più antica attività dell’uomo.
E vogliamo parlare di certe partite, caricate di significato, proprio in virtù di guerre in corso o appena concluse? Come dimenticare i fiumi d’inchiostro che hanno celebrato la Mano de Dios, in quel giugno dell’86, quando il rotolo de coppa smanacciò in rete quella palla, mandando in estasi lo stadio Azteca e l’Argentina intera,a parziale riscatto dello schiaffo ricevuto alle Malvinas.
Lo stesso vocabolario dei cronisti di calcio, attinge a piene mani da quello guerresco, nonché l’idioma proprio dello sport, che ha radici militari (l’attacco, la difesa, il capitano e via dicendo). Ma più di tutto, gli stadi. Frastornanti bacini multicolore, che attraggono due tribù contrapposte, in numero così ingente, da rimandare ai tempi degli opliti, dei crociati o di Waterloo. E hai voglia a invocare il respect e fair play o sfornare tessere del tifoso: dentro allo stadio un inglese sarà sempre un inglese, e tanti saluti ai Beatles e ai Rolling Stones.
Ma c’è di più. Cosa volete che facciano questi popoli di un’Europa ormai martoriata da decenni di pace? S’aggrappano alla bandiera, nel giorno della partita! Per secoli sono stati avvezzi a guerreggiare, in ogni forma e con ogni mezzo, per esprimere l’atavico, irrefrenabile bisogno di affermare la propria superiorità nei confronti dell’altro da sé. E oggi si ritrovano soli, grassottelli, con lo spread uterino che non comprendono, d’avanti a una scatola che fa la luce.
E’ triste dirlo, ma nel nostro occidente al tramonto, la maglia di una squadra di calcio,si avvia mestamente a rimanere uno dei pochi baluardi dell’appartenenza a una comunità, in un tempo in cui tutto sembra malinconicamente essere uguale per tutti, a cominciare dalla moneta.
Loro vorrebbero un calcio più fair, meno appassionato – e non che non ci stiano provando a mettere in piedi un’Euroleague e’ carton’. Ma il calcio è per conformazione difficile da piegare in questo senso. Non è un caso che il bigio Monti, risentito, ne ha proposto la sospensione per qualche tempo. Perché al contrario della materia finanziaria (o anche economica), il calcio fonda sulla cieca appartenenza, quasi sempre inossidabile ed eterna, ma seppur temporanea o effimera, sempre inequivocabile.