Con le dimissioni di Renata Zero si chiude ufficialmente la prima stagione della destra al governo dell’Italia repubblicana: uno squallido fallimento su tutta la linea. Da Alemanno er tassinaro a Moffa a Polverini, ai gaglioffi di Berlusconi, la debacle è stata totale, inequivocabile, definitiva. Truffe, raccomandazioni, spionaggio, parentopoli e barzellette d’ogni genere hanno caratterizzato la combriccola ex-missina, per la quale la paura di essere fottuti, durata sessant’anni, s’è tragicamente trasformata nell’abbaglio di poter fottere impuniti, alla stregua dei loro ben più accorti e navigati predecessori.
La destra è parsa oggettivamente inadeguata e incontinente nella gestione psicologica di se stessa.
Le colpe di tutto questo sconquasso hanno un nome e un cognome: Gianfranco Fini. Di gran lunga il più cretino dei politici italiani dal dopoguerra (punica) a oggi.
E qui si potrebbe – o forse si dovrebbe – partire con un’analisi logica dello sbaraglio, per risalire alle ragioni primarie della disfatta. Ma onestamente non ne abbiamo la voglia, né ne sentiamo il bisogno. Il fatto di non aver compiuto neppure un passo al fianco di questo circo di centro-destra, ci riempie di orgoglio e ci fa tirare un sospiro di sollievo, se non altro per la (facile) lungimiranza – proprio qualche giorno fa ho ritrovato copia della mia lettera di dimissioni dal Fronte della Gioventù del 1995 (l’anno di Fiuggi): “pur comprendendo nel merito le esigenze espresse dall’onorevole Fisichella, non me la sento proprio di seguire il partito in questa folle avventura”. Folle avventura: testuale.
La scelta fu dettata non tanto dall’aver intuito la pochezza politica e umana del segretario Fini, quanto piuttosto dall’odore di Democrazia Cristiana che dal quel gennaio 1995 aveva cominciato a caratterizzare le stanze del partito. La pochezza dello struzzo – ahimè – ci è apparsa chiara solo di recente, aggrappati com’eravamo alla speranza che l’uomo (si fa per dire) avesse in tasca uno straccio di progetto, un asso da calare, un santo in paradiso, un amico, un cugino israeliano, qualcosa. E invece, a un certo punto, sulla testa dell’idiota Fini, insieme alla kippah, è spuntato il fumetto di Snoopy: “Non seguitemi: mi sono perso anch’io”!
E sì che il buon Giano Accame ce lo aveva anticipato, quando in un pomeriggio di primavera, nel suo studio che affacciava sul Lungotevere degli Armellini, ci guardò negli occhi con il contegno che gli era proprio e ci rivelò che no, da quell’uomo non sarebbe scaturito proprio un bel niente.
Non esiste lezione da trarre in questa brutta vicenda. S’è trattato di un partito completamente ubriacato da qualche spicciolo di potere, che ha gettato fango su intere generazioni di uomini – dopo tutto sono pur sempre quattro poveri cristi cresciuti nelle fogne della politica, con un irrefrenabile desiderio di farcela – prendete uno come Gasparri, ad esempio. In Italia – mettiamocelo in testa – una vera e propria destra non c’è mai stata (non l’hanno consentito) e speriamo mai ci sarà, dal momento che sinistra e destra sono categorie ormai desuete, mendaci e a tratti anche irritanti.
Cosa fare? Innanzi tutto bisogna uscire dalla logica che ha dato le ali all’insignificanza della destra finiana (e almirantiana) del quello è uno dei nostri (Battisti, Battiato, Nilla Pizzi…), abbandonare la logica del destrismo pariolino e palestrato di Alemanno e dei suoi abbronzatissimi amici di Piazza Euclide, rifuggire dal pecoreccio della destra alla vaccinara di Francesco Storace e simili, per ritrovare la logica del vivere alto.
Definirsi di “destra” oggi non indica più niente, senza nessun’altra precisazione.
Per noi la lezione non cambia di una virgola: “In prima linea comunque deve esserci l’impegno della sincerità, della lealtà e dell’assoluta aderenza a ogni a ogni parola data, nel piccolo (vita pratica, appuntamenti, scrivere o telefonare), ancor più che nel grande” (J. Evola)
Lavorare su di sé, non sbracare come tutti gli altri, darsi una regola interiore – servono esempi! Le style c’est l’homme, diceva Henry de Montherland. Noi siamo quelli che restano in piedi tra le rovine (bildung und charakter), abbiamo un senso aristocratico nel confronto con la realtà e non ci facciamo sedurre da essa, oltre un certo limite. Abbiamo un ethos ascetico, un eroismo cavalleresco, siamo lupi tra le pecore. E tanto altro ancora, che non va detto né qui , né mai (sacra privata perpetuo manento).
Siamo gli anarchi di Junger, non apparteniamo a questa schiera di contabili dell’esistenza, pronti a tutto pur di raccattare uno straccio di consenso da parte del club dei politicanti per mestiere o della sedicente intellighenzia, di questi nostri intellettuali d’accatto.
Osserviamo la decadenza circostante (i beoti di Critical Mass, ad esempio) e cerchiamo di opporre un tratto di nobiltà (d’animo): chiedete a noi di Codreanu, non alla povera (encefalitica) Chiara Colosimo. Chiedeteci di Evola, di Heidegger. Non faremo un passo indietro nel tentativo di adulare o di farci accettare da chicchessia. Il progressista quasi certamente non comprenderà, ci prenderà per matti, ma noi proseguiremo per la nostra strada, nel convincimento della nostra diversità antropologica – res non verba. Perché noi viviamo il tempo circolare, ma non balleremo in tondo per seguire uno spartito scritto sopra il dorso dell’ambizione politica del giorno per giorno. Né di destra, né di sinistra!
Tutto ciò che abbiamo di fiorito è una rosa rossa tra i denti. Siamo il marmo contro la palude, siamo gli zaini pesanti contro le tracolle Freitag.