lettera aperta a una comunità
Caro direttore,
il rischio che corre chi s’inserisce dall’esterno a metà di un dibattito è duplice: o ripete cose già dette, oppure risulta stonato (e quindi a tratti incomprensibile). Io con questa mia lettera credo di correre tutto intero il rischio, essendo sicuro di riuscire stonato, senza poter escludere d’essere noioso.
Ma non riesco a esimermi dall’esprimere una mia opinione in merito alle elezioni imminenti, in nome del legame che ho con la mia terra, con la mia città e i miei concittadini.
Ho lasciato Potenza vent’anni fa, ma non mi è mai stata data occasione di pentirmene. L’avere anteposto sin da adolescente, per ragioni meramente ideologiche, l’essere italiano all’essere potentino mi ha aiutato a lenire certe ferite, ma non a rimarginarle del tutto.
Prima gli anni universitari a Bologna, poi gli albori nel mondo del lavoro in Emilia, poi il master (sovvenzionato dalla Regione Basilicata), poi Roma, un vero posto di lavoro, gli USA, di nuovo Roma, la cosiddetta carriera, fino poi alla dirigenza, la famiglia, i figli, in un crescente fortunato climax, percorso controcorrente, rispetto alle crisi generazionali, economiche, culturali e di valori. In mezzo, una cocente domanda alla Regione Basilicata per una nomina che sembrava su misura per me, alla quale la Regione non s’è manco degnata di dare risposta.
Ed eccomi a guardare dunque le sorti della mia città, da romano, con quel distaccato attaccamento che sempre ha contraddistinto il mio rapporto con la mia comunità.
Premetto subito – tanto per essere chiari – che se votassi a Potenza, al Comune voterei senza indugi per il mio amico Alessandro Galella. Per le ragioni che mi accingo a spiegare, nel tentativo di tener ben distinto il personale dal generale.
Sia chiaro, però, che ergo Alessandro a simbolo, archetipo, funzionale a un ragionamento di più ampio respiro. Avrei potuto prendere ad esempio Annalisa Pavese, Antonio Vigilante o i pochi altri, tra i tanti candidati, che riportano le sue stesse caratteristiche.
Ma perché loro e non altri (a sinistra), altrettanto amici, onesti e rispettabili?
Cerco di spiegarlo.
Tra i pochi nella mia cerchia ad aver compiuto – se così possiamo dire – un percorso professionale senza dover ringraziare nessun notabile, mi sento in dovere di togliere qualche sassolino dalle mie scarpe (e forse da quelle di un’intera generazione di potentini, imbavagliata dalle minacce di natura clientelistica, che tutt’oggi contraddistinguono le gang che si dividono il potere cittadino e regionale).
Guardandola con cadenza regolare, ma con sguardo quasi da turista, la città negli ultimi vent’anni è inequivocabilmente peggiorata, sia sul profilo urbanistico, che umano, sociale ed economico – e converrà con me che non era facile peggiorare l’indecenza del buio corso Fierro-Sampogna-Potenza-Fierro bis. Ma il decennio di Don Vito (Santarsiero-Mancusi) ha segnato il passo in maniera definitiva e inesorabile, inferendo un colpo letale al tessuto sociale, architettonico-urbanistico ed economico della nostra comunità.
Tralasciando le incidenze che hanno inevitabilmente avuto i flussi di carattere nazionale e mondiale (come ad esempio l’assottigliarsi dei torrenti di denaro pubblico, divenuti ormai piccoli insignificanti rivoli e la carenza di terremoti degni di nota), non possiamo comunque non prendere atto di un sostanziale abbassamento della qualità della vita, che ci vede in fondo alla classifica nazionale, in compagnia di altre realtà del sud che possono quantomeno accampare come attenuante la morsa della malavita organizzata (o forse sarebbe meglio dire disorganizzata) che le ottenebra.
Qual è dunque il perché di tanto declino inesorabile?
A voler parafrasare Einaudi, potrei affermare che, pur avendo conosciuto le amministrazioni locali del paese in lungo e largo, non sono ancora riuscito a trovare nulla che potesse esser detto a favore di una cosa così comica, così camorristica come questa sorta di combriccola di massoncelli nostrani, che sulle solide basi di un clientelismo culturale (e virale) ha annichilito le possibilità di crescita o di rinascita di una terra, di una città e di intere generazioni di potentini e di lucani.
Dopo il tansfer di voti dal grande serbatoio della Democrazia Cristiana a quella ch’è divenuta una sorta di balena rosa, la sinistra lucana (e potentina) non ha avuto la grazia e l’intelligenza (né la forza) d’istaurare un rapporto di “baratto” – come lo definiremmo pasolinianamente – con le pre-esistenti corruttele mafiose (o meglio sarebbe dire mafiungelle).
La sinistra lucana non è divenuta dunque quel “Paese Separato e confinante”, che poteva permettersi di avere rapporti diplomatici stretti col potere effettivo, corrotto e inetto. Bensì è divenuta essa stessa il potere corrotto e corruttore. Nessuna “alleanza” tra due Stati confinanti, dunque – sempre per continuare con la metafora pasoliniana – quanto un vero e proprio innesto di mafia nel fragile organismo della sinistrella (cittadina e regionale), che ha prestato la propria faccia pulita al servizio degli sgherri colombiani.
E qui vengo al nocciolo.
A Potenza e in Basilicata è in corso processo del male che congloba il bene, del corrotto che infetta il puro. Un processo che continua imperterrito nel tempo – come nell’esempio fresco fresco del (candidato) sindaco Petrone, persona eccellente e rispettabilissima sotto il profilo morale e umano, ma già screziata (politicamente ed esteticamente) dalle prime immagini al fianco dei Fierro, dei Potenza e degli Scaglione, che inesorabilmente ne incrinano la freschezza (e forse anche la rettitudine percepita).
E di esempi ce ne sarebbero a decine, compreso, se vogliamo, quello del più alto in grado, il nostro high potential Robertino Speranza, che per via di questo meccanismo perverso s’è dovuto far carico in diretta tv pure del rimbrotto del grillino (allo sbaraglio) Di Battista (che ha avuto agio di abbaiargli un «le persone come te sono schiave di potere») .
Come un tumore, quindi, i vecchi poteri attaccano inesorabili anche le parti sane, riducendo l’organismo a una larva.
Morta la grande Colomba bianca – indimenticabile lo scatto dell’inchino di Don Vito d’innanzi al suo feretro – restano solo macerie e attori insignificanti. La sinistra (che poi di sinistra non ha più nulla), forte dei suoi poteri occulti, ben radicati sul territorio e nelle menti, recluta persone per bene, piegandole ai propri scopi. I risultati bulgari tolgono ossigeno alla democrazia cittadina, l’alternanza resta una chimera irraggiungibile. Sembra passata una vita dai braccialetti-normografo di Angioletto Sanza, ma invece sono solo passate molte vite umane.
Non mi aspetto, tuttavia, che votando chi è fuori dal sistema clientelare si possa cambiare di colpo in meglio alcunché. La strada è lunga e tutta in salita. Ma credo che un voto che colmi il vuoto di alternative, possa essere propedeutico a una ripresa morale, prima che economica e sociale. Dovrebbe essere auspicabile anche dalla parte sana (che è consistente) che ancora si ostina a riconoscersi in questo stagno politico, che è il PD in Basilicata.
Su scala nazionale la sinistra ha esaurito la sua carica emotiva, e con Renzi premier anche l’egemonia intellettuale scricchiola. Ci sarà ancora qualche fuoco di paglia, poi l’implosione.
Dico ai miei concittadini, ad Alessandro in primis, che è meglio votare (come al solito) per chi reputiamo meno peggio, ma questa volta FUORI da quell’insieme nefasto e corrotto fino al midollo (nel quale riconosciamo esserci purtroppo anche persone per bene).
Negli altri schieramenti non troverete forse nessun politico di razza. Ma state tranquilli che non ce ne sono neppure nel PD. Occorre provare a sbloccare il meccanismo amministrativo e sociale. Occorre una rottura. Da questa parte (ovunque fuori dal PD e dai suoi satelliti) non ci sono affatto giganti, ma ci sono i sorrisi, la volontà, la serietà, l’energia nuova e l’amore per questo luogo e per questa comunità. Siamo in tempi di ricollocazione politica e ideologica. Il ruolo di chi fa politica non è quello di ridare spessore a una delle tradizionali componenti del panorama politico, bensì quello di trovare nuove sintesi. Si tratta di proporre una nuova scelta di vita, che consenta alle generazioni venture di sottrarsi al tacco dei potentuncoli locali.
Tenendo a mente che chi avrà l’onere di entrare nel palazzo non deve farlo con l’intento di andare a disputare agli abitudinari i resti insipidi di un sudicio banchetto. Anche se talvolta transiteranno per quelle stanze, dovranno ricordare che il loro posto è fuori di là, all’aria aperta, in vigilanza attenta e sicura. Col sorriso sulle labbra, lontani per sempre da quell’ingrigimento bigotto, che ha fatto di Potenza una delle città più meste d’Italia.
Finora quelli come Alessandro sono stati i soli a interpretare la città in modo diverso, da domani avranno anche il compito di iniziare a cambiarla.
Auguro ad Alessandro e a tutti coloro i quali saranno eletti nelle liste fuori dal “cerchio magico” d’imparare in fretta a saper avere tenacemente torto. La città è piena di gente che ha ragione: è per questo che marcisce!
Buon lavoro!