Category: Così vanno le cose

La Speranza di restare degni d’essere italiani

Mi porto avanti: faccio i miei complimenti ed esprimo tutta la mia gratitudine a Roberto Speranza e a tutto il governo Conte, per come è stata condotta in porto la questione Coronavirus nel nostro paese.

Già, perché ora siamo ancora nella fase fango-tiro al bersaglio, ma poi inizierà il new normal, e saranno tutti lì a leccare il culo ossequiosamente. Quello, e solo quello, sarà il momento in cui alzerò il telefono e tornerò ad essere avversario politico di Roberto (com’è stato sin dai tempi delle superiori).

Ma adesso È INTOLLERABILE!

In questo momento delicato, lo Stato e le Istituzioni devono essere riconosciute come l’unico punto di riferimento.

Lo spettacolo pietoso dei commentucci sgrammaticati dei livorosi politicuncoli locali, delle recriminazioni d’accatto e delle speculazioni social col culo degli altri, è l’atteggiamento più indecoroso che un cittadino possa avere: degni neppure d’essere chiamati italiani.

Sarebbe opportuno che in queste ore la comunità lucana segnasse una differenza rispetto alle altre, sostenendo una persona per bene della propria terra, anche se (con l’88% di probabilità) appartenente a uno schieramento politico diverso dal proprio.

Sarebbe opportuno che in questo momento la comunità italiana tutta segnasse una differenza rispetto a se stessa e sostenesse davanti al mondo, in pieno, il suo governo e le sue istituzioni.

 

Solo così saremmo ancora degni di quei valori che ci fanno senza alcun dubbio il popolo più civile d’Europa e del mondo.

 

 

 

 

 

 

Allons Startup de La Patrie!

Esultano le banche, i mercati, il grande capitale, i burocrati e i bobos di tutt’Europa.
I trumpisti di casa nostra, invece, ululano alla luna, imprecando contro il goblotto giudaico-massonico.
Le urne francesi ponevano l’elettore davanti a due visioni del mondo: una ultra-liberale e universalista, che non crede nello Stato né nella Nazione, l’altra identitaria.
Unico problema è che per abbracciare la seconda, bisognava sobbarcarsi tutto il peso di una struttura culturale (e politica) decadente e a tratti imbarazzante, quella appunto del nuovo Front National di Marine Le Pen. E infatti il 36, 91% dei francesi (tra nulle, bianche e astenuti) non se l’è sentita di spingere avanti quest’armata livorosa e decostruzionista (in questo tale e quale ai cinquestellai di casa nostra).
Non molto diverso da quello che succede in Italia, dove da a una ventina di anni a questa parte, se vuoi votare di là, devi farti il segno della croce – d’altronde checché se ne dica, Marine ha salvinizzato il Front (e non viceversa), anteponendo le gravier (la ruspa!) ai principi della novelle droite di Alain de Benoist (tanto cari al padre Jean Marie).
Risultato? Una débâcle!
È bastato l’algido algoritmo umanoide Macron a disintegrare i sogni di gloria lepenisti. In passato i milieu affaristici sostenevano un candidato o un altro, a seconda dei loro interessi. A sto giro hanno avuto agio di piazzarne addirittura uno proprio. E questo solo grazie alla consistenza, ma allo stesso tempo all’inconsistenza, di Marine e della sua equipe di avvocatuncoli borghesi, xenofobi e marrani.

Mi pare evidente che i francesi non siano ancora arrivati allo stato di decomposizione mentale, politica e culturale in cui versano gli americani e i loro cugini inglesi. Nessuna exit, dunque, per adesso, nessun Trump d’Oltralpe.

Ma non disperate. Oltre alla sua passione granny e alla conseguente inclinazione estinzionista, mr Mac ha anche una forte intraprendenza startuppara, e presto prenderà la Francia per mano per condurla ai livelli di degrado politico e culturale in cui versano i suoi cugini-alleati anglo-americani: smantellamento dell’apparato statale, abbassamento dei diritti dei lavoratori, a vantaggio de le grand replacement.
Arriveremo quindi al 2022 che la Francia sarà un polveriera nel cuore dell’Europa.  A quel punto toccherà a Marion Marechal, la vera erede di Jean-Marie. Ma sarà ormai troppo tardi. Il paese sarà probabilmente in submission, saldamente in mano ai fratelli mussulmani.
Saranno cazzi? Beh, sì: saranno cazzi. Non tanto per le banche e i mercati che com’è noto non conoscono luoghi, religioni né ideologie, quanto proprio per i nostri poveri bobos, che si ritroveranno le figlie con lo Hijab, e il loro fidanzato Mohamed che bonificherà la cantina, sversando nel cesso la riserva di Bordeaux di nonno Philippe.

… E poi si chiedono perché uno non faccia politica.
Non è perché sia difficile, ma piuttosto perché sarebbe del tutto inutile. Forse meglio concentrarsi a portare a termine la nemesi e aiutare gli algoritmi finanziari a completare l’opera nel minor tempo possibile.
E tu da che parte remi, verso un’Europa musulmana o una gender-free?
En marche! Rien ne va plus.

* Quest’articolo non prende in considerazione in alcun modo la Russia e Putin onde evitare il rischio concreto di mandare dallo psicanalista l’elettore di sinistra medio italiano, che già si trova al contempo a tifare per Rothschild e l’Europa dei “padroni” contro quella degli operai e dei contadini, votare per Banca Etruria, pur rimanendo anti-capitalista no-global, cantando oh bella ciao al primo maggio, ma anche Occidentali’s Karma, sventolando in entrambi i casi la bandiera del PCI.
A questo punto qualcuno darà atto che perdere la seconda guerra mondiale non è stata proprio una grandissima idea.

 

Il disco rotto del 25 aprile

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La ricorrenza faziosa del 25 Aprile vede ogni anno una lunga teoria di critiche contrapposte e barocche, sviluppate e gridate quasi ad onorare una non-tradizione sviluppatasi lungo il corso dei sette decenni della nostra vita repubblicana. Entrare nel merito della vicenda è francamente penoso: da un lato il logorroico peana antifa ripetuto meccanicamente da nuove e vecchie leve della galassia sinistrorsa, in rigorosa tenuta arcobaleno noborders. La liturgia resistenziale, fatta di canti vetusti e pastasciutte rivoluzionarie si dipana pigramente entro i viali d’ogni città italiana, tra l’apatia latente della maggioranza silenziosa e silente, intenta a preparare la brava gita fuori porta. Il campo avverso, invece, malato di nostalgia, si dispera ricordando i bei tempi andati, i fasti imperiali, le sfilate militaresche, l’ordine e la pulizia del Regime, tra una bottiglia di vino Mussolini e un calendario comprato a Predappio.

E a Sparta e ad Atene, dunque, il pittoresco gretto e meschino s’impone sulla Storia, ingiuriando i morti, schifando i fatti. Alla fine della fiera, come sempre, chi risulta offesa è l’Italia.

La festa nazionale, così come è stata concepita nel corso dell’Ottocento romantico, svolge una precisa funzione: nel gran corpo della religione civile dello Stato, infatti, occorre offrire al cittadino una serie di miti, ricordati in date specifiche, alla guisa delle festività religiose. Il 14 luglio in Francia, il 4 luglio negli USA, il 9 maggio in Russia costituiscono chiari esempi in questa direzione. Date inclusive, che rammentano ai posteri momenti fondamentali della vita nazionale, riuscendo a collegare idealmente le varie generazioni che hanno costituito e costituiscono il popolo d’uno Stato.

In Italia s’è voluto esaltare invece una data faziosa, che ha in sé i geni della divisione, della discordia, del disprezzo reciproco. Il 25 Aprile, infatti, non rammenta la Liberazione, ma la sconfitta rovinosa della RSI ad opera degli Angloamericani, coadiuvati da un tardivo ed effimero nucleo di partigiani. In soldoni, si ricorda l’esito, finale e tragico, di una guerra civile infame e sanguinosa, combattuta in maniera barbara e crudele, mentre la Patria veniva invasa e sconvolta da eserciti nemici in lotta, come al tempo delle guerre d’Italia del Cinquecento.

Come se non bastasse, l’evento ha un significato profondo, indipendentemente dall’ideologia politica, soltanto per una parte d’Italia, quel Settentrione martoriato dall’occupazione nazista e dalla guerriglia delle bande. Per un siciliano, per un napoletano, per un romano, la guerra era già finita nel 1943 e nel 1944: quel mercoledì di fine aprile, nel Mezzogiorno come a Roma non successe materialmente niente, come nulla fu infatti la lotta antifascista al Sud per una evidente componente temporale. Una festa nazionale che, quindi, ha un carattere locale. A ciò si sommi il gigantesco problema politico, dettato dall’esito degli eventi: neri sconfitti e demonizzati da una parte, rossi vittoriosi e mitizzati dall’altra. La pacificazione, impossibile ieri, pare ancora dura da ottenere nel 2016, in pieno XXI secolo. Troppe resistenze- è il caso di dirlo- si ergono ogni qualvolta si affronta il tema in maniera originale e scevra di pregiudizi, scatenando l’esercito dei dogmi e dei luoghi comuni su chi tenta di bucare il muro di gomma dell’epopea partigiana.

Il risultato è una completa disaffezione dei cittadini dalla data, oramai incompresa e assai distante dalla società contemporanea, che ha altri e ben più gravi problemi da affrontare. La sclerotizzata liturgia antifascista, così come il vetero-reducismo dei post-fascisti, risulta un rottame della Storia condannata dai tempi all’anacronismo. In un’epoca che muove l’attacco finale alle libertà e ai diritti dei popoli, continuare a difendere una data che divide e schiera gl’italiani è puro autolesionismo: dote congenita, purtroppo, dell’abitante dello Stivale.

 

[Antonio Martino]

Roma Tremilaventiquattro

imageQui il tempo ha altre leggi, lo spazio proporzioni diverse. Come con gli scudi e le piotte, bisogna imparare da subito a farei conti con nuovi parametri,  ad essere noi stessi, ma districandosi tra le strade di questa benedetta grande bellezza, talvolta sfiorita, ma sempre ammonitrice e maestra.  Una immensa ruota sublime nella quale s’impara a perdere tempo senza frignare (come invece fanno i cugini calvinisti), avvicinandosi in questo modo, inconsapevolmente, al mistero della storia di Roma e della sua vera essenza. Poiché il genio e la virtù di questo popolo sono innanzi tutto nella sua immensa capacità di attesa, nella sua incomprensibile pazienza, che è vasta quanto è vasta la superficie. Questa pazienza è sopravvissuta a tutto, in ogni tempo, ha sconfitto burgundi e marcomanni, lanzichenecchi e gepidi, goti e francesi, e anche adesso agisce come il più robusto pilastro nella nuova architettura sociale di questo sfacelo. Nessun altro popolo al mondo sarebbe stato in grado di sopportare la sorte che Roma è abituata a subire da millenni, con indifferenza e nonchalance. Guerre, carestie, allagamenti, sacchi e devastazioni, abusi, ruberie e palazzinari, fino al Nulla pneumatico di queste ore. Non per niente Roma è la prima città del mondo. E ognuno di noi non può che inchinarsi con deferenza di fronte alla summa di sofferenza e martirio ch’essa è costretta a subire.

Tutto ciò Roma ha potuto tollerarlo grazie a questa sua eccezionale resistenza nella passività, attraverso un me ne frego scanzonato e ironico, ma anche eroico al tempo stesso, e una tenace, muta pazienza, ch’è la sua vera grande forza incommensurabile.

 

 

 

(ispirato da un passo di S. Zweig)

Fronti e frontiere

CHINA. Yunnan Province. 1993. An old Nu tribe believer, who is 89 years old, said, "I am approaching my grave, I pray for God and read the Bible every day, and I only hope that my soul will ascend to heaven."
CHINA. Yunnan Province. 1993. An old Nu tribe believer, who is 89 years old, said, “I am approaching my grave, I pray for God and read the Bible every day, and I only hope that my soul will ascend to heaven.”

 

Quando una comunità si batte per salvare la propria pelle – il muro, la moschea, la chiesa o la tomba dell’antenato – ogni mezzo è buono : la lotta è all’ultimo sangue, perché non è più in gioco ciò che si ha, ma ciò che si è.

Sacralizzare: che interesse può avere oggi, quando tutto, persino la religione, sembra dissacrato?

Beh, serve per mettere uno pezzo di memoria al riparo. Per salvaguardare l’eccezionalità di un luogo e, tramite esso, l’unicità di un popolo. Per infilare il cuneo dell’insostituibile nella società dell’intercambiabile, una forma senza tempo dentro un tempo volatile, qualcosa senza prezzo in un mondo dove tutto è merce.

Regis Debray, Elogio delle frontiere.

Referendum

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TRE FATTORI PECULIARI DI QUESTO REFERENDUM:

1. L’insopportabile deriva ecologista (che ha raggiunto il suo apice in quel demente di Emiliano, che per promuovere il referendum libera una tartaruga “Caretta Caretta” a largo di Bari su uno yacht battente bandiera britannica, circondato da una flotta di circa 10 imbarcazioni di lusso (a motore!).

2. I cinquestellai, le macerie destroidi, la sinistra extra PD e i leader-ombra (più ombra che leader) Gianni Cuperlo e Roberto Speranza hanno voluto caricare il quesito, dando al referendum una suicida funzione politica anti-Renzi.

3. L’irrilevanza del quesito referendario.

 

TRE RISULTATI INEQUIVOCABILI:

1. Gli ecologisti restano un grave problema per il paese. Come gli animalisti, i vegetariani, i vegani e i cinquestellai (che credono agli ufo).

2. La spallata al tiranno non c’è stata, anzi gli uomini del presidente già si fregano le mani (d’altronde solo questa presunta opposizione di disagiati mentali (a destra e a manca) poteva caricare così tanto un referendum dal risultato quasi ovvio, regalando al mafio-massone Renzi l’ennesima occasione di rilancio).

3. La Total (e gli altri) continueranno a fare i cazzi loro, a parziale danno del paese, nei tempi che stabiliranno loro e il marito della Guidi.

 

NEL FRATTEMPO:

1. È morto il Senato.
2. Si è chiarito ancora una volta (qualora ce ne fosse bisogno) il divario enorme che c’è tra i social e la vita reale.
3. Speriamo che Total si muova a compassione e ci regali almeno il petrolio per compensare l’energia che in queste settimane è servita ad alimentare computer, Ipad e smartphone dai quali sono partite puttanate di dimensioni ragguardevoli.

Fra sei mesi si vota sul referendum costituzionale.
il grande assente dalla scena è L’INTERESSE NAZIONALE (questo sconosciuto), sacrificato a favore dell’odio per questo o per quel nemico.

Giovanni Gentile (tanto per entrare in clima 25 aprile) diceva che lo Stato non si restaura se non si restaurano le forze morali che nello Stato trovano la loro forma concreta, organizzata, perfetta. Lo Stato non si restaura se non si restaura la famiglia, e nella famiglia l’uomo, che è la sostanza della famiglia, della scuola, dello Stato.

Avrebbe aggiunto (anche a mio monito), che lo Stato non si restaura sui social.

Avanti popolo alla riscossa, Tempa Rossa la trionferà!

imgresMi pesa dirlo, ma credo che l’unica connessione tra la vicenda Guidi e il referendum sia il solito tempismo della magistratura che, puntuale, rilascia ai media un’inchiesta vecchia di tre anni, completa di relative immancabili intercettazioni, a pochi giorni dal voto.
 
Più in generale, si ha l’impressione che il paese rischi d’essere definitivamente affossato dalla lotta fratricida tra i clan del PD (Magistratura Democratica ha evidentemente cambiato bersaglio, la minoranza PD fluttua inebetita e impotente, tenta sabotaggi, trama, anche se poi alla fine in parlamento vota).
 
Sbagliata era dunque la telefonata, non l’emendamento. Riprorevole è l’incredibile groviglio d’ignobili interessi clientelari e familistici, tutti a marca PD, che il progetto Tempa Rossa ha generato.
Questo al netto dei soliti ambientalisti d’accatto, che ci rompono i coglioni, alla stregua dei vegani, cinquestellai, slowfooddisti, bio-integralisti, animalisti, sedicenti fascisti, no-tav e cooptati d’ogni ordine e grado, unico vero grande flagello di questo paese incatenato e sterile.
L’unico leader della scena politica italiana in questo momento è Matteo Renzi. È questo un dato incontrovertibile. Le dimissioni lampo della Guidi altro non sono che la dimostrazione concreta della sua forte leadership (in altri tempi i ministri ben più intercettati, o non si sono dimessi, o ci hanno impiegato mesi). E l’ossequio di Verdini, col suo codazzo massonico-mafioso, ne è la contro-certificazione.
C’è da domandarsi semmai com’è possibile che tutto intorno ci sia il vuoto, a chi giovi questo vuoto, chi lo favorisce e come mai, ad esempio, i media diano visibilità allo stolido Salvini anziché ad altri, un po’ meno marchiani. Ma questo è un altro discorso.
Si ha l’impressione che l’Italia sia definitivamente uscita dai giochi (così come l’Europa, d’altronde) della grande politica planetaria. In questa fase storica, il pericolo per l’Italia scaturisce proprio dalla sua impotenza, dalla pressione immigratoria, dalla violenza dei vortici bellici che girano nell’area mediterranea (e balcanica), dal crescente disinteresse degli Stati Uniti. Se il paese non prende coscienza della propria inconsistenza politica, industriale, militare e ideologica, rischia di essere risucchiato nel caos, assieme alla Grecia e alle altre appendici meridionali dell’UE che qualche leader nord-europeo vorrebbe trasformare in immensi campi profughi, assegnando a noi il compito di gendarme di flussi umani, che un tempo Berlusconi diede a Gheddafi (cosa che, ci rendiamo conto, farebbe la fortuna dei tipi alla Buzzi e delle coop, anch’esse rosse come la Tempa).
Ma è proprio dal disinteresse crescente da parte degli USA che bisogna ripartire, provando a rimettere assieme i pezzi  dello Stato Italiano (svenduti da Prodi e compagnia), riorganizzare il Paese, facendo crescere il proprio livello di autonomia economica, alimentare, industriale ed energetica. E l’Italia non può che ripartire dal Mediterraneo, il luogo in cui da ormai novant’anni s’è assopito il suo destino.
E trivellare (sì, trivellare!) può essere anch’esso un modo per ripartire, per riprendere possesso, rialzare la schiena e smetterla d’immaginarci come un popolo di camerieri e albergatori, dj, baristi e ristoratori, ma tornare a prendere coscienza d’essere altro che un mega airbnb adagiato in mezzo al mare: un faro per le genti del Mediterraneo, un faro per il mondo intero.
Renzi ha una chance dalla Storia per rimettere in moto tutto questo. Una chance che non durerà per molto.
A patto, ovviamente, che si agisca nell’interesse del paese (e quindi della Lucania) e non nel recinto degli interessi (mafiosi) del PD.

Da Pasolini a Papaleo – Il Vangelo secondo Pittella

sassi1Non so se avete presente Ritorno al luogo natio, la poesia di Sergej Esenin. Forse no, ma vale la pena cercarla. Racconta del poeta che, dopo la rivoluzione, torna al paese natale e trova tutto cambiato. Nulla è più come prima: strade, case, chiese, persone.

Ecco, credo che per Matera e per i materani valga un po’ la stessa cosa. Questo 2019 è come una rivoluzione.

Io me la ricordo Matera. I miei genitori mi ci portavano da ragazzo quando avevano ospite qualche amico da altre parti d’Italia. Secondo mio padre a Potenza non c’era molto da vedere, né da fare, e comunque «uno che viene in Lucania non può mancare la magia dei Sassi». Io masticavo amaro per via di un campanilismo calcistico che, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, aveva assunto la forma di “guerra santa” contro il cugino “cavernicolo” e “sassaiolo”. Ma sentivo che in fondo i miei avevano ragione: i Sassi erano belli davvero e neppure la mia fede rossoblù poteva felpare quell’incanto. L’isolamento di quella gente dall’accento imbarazzante aveva creato un mondo a parte, silenzioso, poco frequentato, per certi versi triste e malinconico anche nella sua calda luce israeliana, o palestinese – vabè insomma diciamo mediorientale. Girare nei Sassi era un po’ come essere dentro al presepe, ma non quello napoletano, quello originale. Sì, insomma era come essere a Gerusalemme (dove poi sono stato e ho potuto constatare l’incredibile somiglianza di Matera con la Palestina e del dialetto materano con l’aramaico). Un presepe povero (nel senso positivo di essenziale) circondato da caverne e calanchi incantevoli allo sguardo, da un silenzio quasi sacro, interrotto talvolta da un ceccausa? (che è un intercalare che vuol dire “che cosa?”, in aramaico appunto).
E poi, oh!, Pasolini (dico Pa-so-li-ni) nel ’64, l’UNESCO nel ’93 e infine Mel Gibson agli inizi del 2000, hanno santificato definitivamente l’incantevole, atavica, irrimediabile bellezza di Matera, con buona pace di noi ultras rossoblù.

Stacco: Rocco Papaleo! Amadeus! e Claudio Lippi!
Francesco Renga, quel che resta di Antonello Venditti (che per l’occasione ha cantato In questo mondo di ladri, nella quale molti ci hanno visto un riferimento alla giunta regionale PD), Malika Ayane, Marco Masini, Noemi e Paul Young. Più alcune giovani promesse della musica italiana di Amici di Maria De Filippi e anche alcuni dei protagonisti di Tale e Quale show (che non so che cazzo sia, ma mi fido). Tutto questo in virtù di Matera Capitale della Cultura(!) Duemiladiciannouufe (sì, a Matera il 9 si pronuncia nouufe, quasi come in francese).

È un po’ che non ci vado a Matera. Me la sono ritrovata in tv la notte di capodanno a casa di un amico, e nonostante il campanilismo jihadista non sia ancora del tutto sopito, mi ha fatto una gran tenerezza. Mancano ancora tre anni al traguardo – mi sono detto – e questi già stanno a Papaleo e Marco Masini.

Piccolo inciso su Papaleo Rocco da Lauria.
Lauria è un piccolo paese della Lucania al confine con la Calabria (agli antipoidi del materano). In Calabria per indicare una persona non particolarmente brillante si usa il sintagma ciot-i-lauria (sciocco di Lauria).
Rocco Papaleo – chiariamo – è innanzi tutto il nome del protagonista di un film di Ettore Scola del 1971, interpretato da Marcello Mastroianni. Ma è anche il nome del talentuoso (dicono) anchorman, regista, sceneggiatore, attore quasi calabrese, che s’è messo in testa di promuovere (così dice lui e quelli del pd lucano) la Basilicata, che lui si ostina a chiamare Basl-cata, in un idioma «più papaleiano che lucano, nel quale i lucani non hanno alcuna intenzione di universalizzarsi» – come ha giustamente osservato la Simonetta Sciandivasci sul Foglio di qualche giorno fa.
Per promuovere la Basl-cata, ad esempio, il nostro Rocchino da Lauria ha preso dalla Regione 350 000 euro del Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale nell’ambito del Programma Operativo 2007–2013 per girare il suo bellissimo (dicono) Basl-cata coast to coast; e almeno il doppio dall’ENI (Ente Nazionale per la trivellazione della Basl-cata) per prestare il suo volto agli spot del colosso petrolifero italiano.

Rocco – bontà di dio – si fa fatica a capire cosa cazzo dici! Hai una cadenza veramente di merda!
D’altronde – caro Piettella – tra Pasolini e Maria De Filippi ci dovrà pur essere una terza via, che non passi necessariamente solo e sempre da Lauria (in aria di capitali della cultura, m’è uscita pure la rima).

Scusate, torniamo a Matera.
Ormai quando entri nei negozi ti parlano direttamente in inglese – mi ha detto un amico che per lavoro ci va tutte le settimane -, i Sassi sono sempre affollati da visitatori di tutto il mondo e il business turistico della città è ormai a livelli davvero interessanti.
Jihad a parte, non può non far piacere. In una regione che, prigioniera del PD, non riesce ad uscire dallo schema turistico delle sagre paesane (finanziate dagli sgherri del petrolio, appunto), Matera rappresenta il cambiamento, l’uscita dalla stagnazione, il barlume di speranza. Il problema è però il prezzo da pagare. Di certo questo capodanno non è stata una buona partenza: 585.600 euro spesi dalla Regione, da ripetersi ogni anno fino al 2019 (per un totale di 2,9 milioni). Trattasi di: «Potenziamento dell’azione di promozione turistica della Basilicata mediante l’organizzazione di un grande evento nella Città di Matera capitale della cultura 2019».

«La qualità è assicurata dalle note capacità tecniche ed artistiche di RaiCom», che garantisce «il ricorso a tecnologie innovative della comunicazione e informazione». Non abbastanza innovative, evidentemente, da impedire il bestemmione in mondovisione, la pubblicità alla pizzeria Eustachio, il finale di Star Wars e persino un liberatorio «Pittella vaffanculo», colpo basso al povero Bush jr de noantri (di Lauria anche lui come Papaleo), che tanto aveva puntato su quella serata.

Un affare tutto renziano, del quale, al di là dell’efficacia, risulta difficile non registrarne l’ardimento: senz’altro un passo avanti, rispetto alla vecchia gestione PD, fondata solo sul voto di scambio, sui cerchi magici e sulle clientele più mefitiche («la Prima Repubblica non si scorda mai»).

Ma – mi domando – non era più semplice mandare in onda il Vangelo Secondo Matteo nel prime time di una sera d’inverno e investire i 3 milioni in qualche ritocchino decementificante al Caveoso?
Passare da Pasolini al testimonial dell’ENI – me ne darete atto – è davvero la più infausta delle nemesi.

Al mio miglior nemico, dunque, auguro maggior fortuna. Ma occhio agli sciacalli, cugino cavernicolo: nel Barisano e nel Caveoso, tra gli stock di giapponesi, è già all’opera la banda. E il PD lucano, seppur dilaniato dalle sue medievali lotte intestine, pare si stia preparando al salto sul carro (che non è certo quello della Bruna, ma quello del vincitore, as usual), per praticarti un po’ di dolce su e giù – si sa, il modello Basl-cata è un po’ come lo ius primae noctis. Ma tu, mi raccomando: lavora duro! 😉

Quello che mi chiedo infine è se, in questo anno che verrà, a qualche famiglia materana, quando avrà ospiti da fuori, non possa venire in mente di uscire dal trambusto dei Sassi, per far assaggiare quel silenzio particolare che in Lucania avvolge le cose, che cristallizza gli eventi della vita nel loro attimo migliore, quel silenzio che si gode nei nostri boschi, sui nostri monti, per le strade dei nostri paesini arroccati che sono un’alternativa ai tour made in UNESCO, quel silenzio che non si può racchiudere in una guida, perché più intimo e profondo del turismo, quel silenzio di Sinisgalli che, Rocco Papaleo – se vuol essere davvero dei nostri – deve imparare al più presto.

 

 

 

 

(citazioni da A. Pascale, Non è per cattiveria – Laterza, Contromano)

Amore di mammo!

La società ha integralmente adottato, senza il minimo limite e senza il minimo contropotere, i valori femminili”: in questi termini ha espresso di recente il suo parere il pediatra Aldo Naouri. Di questa femminilizzazione sono già testimonianze il primato dell’economia sulla politica, il primato del consumo sulla produzione, il primato della discussione sulla decisione, il declino dell’autorità a profitto del “dialogo”, ma anche l’ossessione della protezione del bambino (e la sopravvalutazione della parola del bambino), la messa sulla piazza pubblica della vita privata e le confessioni intimi della “tele-realtà”, la moda dell’“umanitario” e della carità massmediale, l’accento posto costantemente sui problemi della sessualità, della procreazione e della salute, l’ossessione dell’apparire, del voler piacere e della cura di sé (ma anche l’assimilazione della seduzione maschile alla manipolazione e alla “molestia”), la femminilizzazione di talune professioni (scuola, magistratura, psicologi, operatori sociali), l’importanza dei mestieri della comunicazione e dei servizi, la diffusione delle forme rotonde nell’industria, la sacralizzazione del matrimonio d’amore (un ossimoro), la moda dell’ideologia vittimistica, la moltiplicazione delle “cellule di sostegno psicologico”, lo sviluppo del mercato dell’emotività e della compassione, la nuova concezione della giustizia che fa di essa un mezzo non per giudicare in assoluta equità ma per far pesare il dolore delle vittime (per consentire loro di “elaborare il lutto” e “ricostruirsi”), la moda dell’ecologia e delle “medicine dolci”, la generalizzazione dei valori del mercato, la deificazione della “coppia” e dei “problemi di coppia”, il gusto della “trasparenza” e della “commistione”, senza dimenticare il telefono portatile come sostituto del cordone ombelicale, la progressiva scomparsa dell’imperativo dal linguaggio corrente ed infine la stessa globalizzazione, che tende ad instaurare un mondo di flussi e riflussi, senza frontiere né punti di riferimento stabili, un mondo liquido e amniotico (la logica del Mare è anche quella della Madre).

Dopo la penosa “cultura rigida” degli anni Trenta, non tutto è stato negativo in questa femminilizzazione, certo; ma essa è ormai scaduta nell’eccesso inverso. Al di là dell’essere sinonimo di svirilizzazione, il suo sbocco è la cancellazione simbolica del ruolo del Padre e l’indistinzione tra i ruoli sociali maschile e femminile.

La generalizzazione della condizione salariale e l’evoluzione della società industriale fanno sì che oggi gli uomini non abbiano semplicemente più tempo da dedicare ai figli. Il padre è stato a poco a poco ridotto ad un ruolo economico e amministrativo. Trasformato in “papà”, tende a diventare un semplice sostegno affettivo e sentimentale, fornitore di beni di consumo ed esecutore delle volontà materne, e nel contempo un assistente social-familiare, un aiuto-marmittone, destinato a cambiare pannolini e spingere passeggini.

Ma il padre simboleggia la Legge, referente oggettivo che si innalza al di sopra delle soggettività familiari. Mentre la madre esprime prima di tutto il mondo degli affetti e dei bisogni, il padre ha la funzione di tagliare il legame di fusione fra il bambino e la madre. Fungendo da istanza terza che fa uscire il bambino dall’onnipotenza narcisistica, egli consente l’incontro di costui con il suo contesto socio-storico e lo aiuta a collocarsi all’interno di un mondo e di un periodo di durata. Assicura “la trasmissione dell’origine, del nome, dell’identità, dell’eredità culturale e del compito da svolgere”, come ha scritto Philippe Forget. Facendo da ponte fra la sfera familiare privata e la sfera pubblica, limitando il desiderio attraverso la Legge, egli si rivela indispensabile alla costruzione di se stessi. Ma nel nostro tempo i padri tendono a diventare “madri come le altre”. Per usare le parole di Éric Zemmour, “anch’essi vogliono essere portatori dell’Amore e non più solamente della Legge”. Orbene: il bambino senza padre fa un’enorme fatica ad accedere al mondo simbolico. In cerca di un benessere immediato che non è costretto ad affrontare la Legge, la dipendenza dalla merce diventa del tutto naturalmente il suo modo di essere.

 

Un’altra caratteristica della modernità tardiva è l’indistinzione tra le funzioni maschile e femminile, che fa dei genitori dei soggetti vaganti, smarriti nella confusione dei ruoli e nell’offuscarsi dei punti di riferimento. I sessi sono dei complementari antagonistici, il che vuol dire che si attirano e nel contempo si combattono. L’indifferenziazione sessuale, ricercata nella speranza di pacificare le relazioni fra i sessi, finisce col far scomparire quelle relazioni. Confondendo identità sessuali (non ce ne sono che due) e orientamenti sessuali (ce ne può essere una moltitudine), la rivendicazione di omoparentalità (che toglie al bambino i mezzi per nominare la sua parentela e nega l’importanza della filiazione nella sua costruzione psichica) si riduce a chiedere allo Stato di fabbricare leggi per convalidare abitudini, legalizzare una pulsione o dare una garanzia istituzionale al desiderio, tutte funzioni che non gli spettano.

Paradossalmente, la privatizzazione della famiglia è andata di pari passo con la sua invasione da parte dell’“apparato terapeutico” dei tecnici e degli esperti, consiglieri e psicologi. Questa “colonizzazione del mondo vissuto” operata con il pretesto di razionalizzare la vita quotidiana ha rafforzato insieme la medicalizzazione dell’esistenza, la deresponsabilizzazione dei genitori e le capacità di sorveglianza e di controllo disciplinare dello Stato. In una società considerata in debito perpetuo nei confronti degli individui, in una repubblica oscillante fra commemorazione e compassione, lo Stato assistenziale, indaffarato nella gestione lacrimosa delle miserie sociali per il tramite della sua clericatura sanitaria e previdenziale, si è trasformato in Stato materno e maternizzante, igienista, distributore di messaggi di “sostegno” a una società rinchiusa in una serra. È questa società dominata dal matriarcato mercantile che si indigna oggi del virilismo “arcaico” delle periferie metropolitane e si stupisce di vedersene disprezzata.

 

Tutto ciò però altro evidentemente non è se non la forma esteriore del fatto sociale, dietro la quale si dissimula la realtà delle disuguaglianze salariali e delle donne picchiate. La durezza, evacuata dal discorso pubblico, ritorna con tanta più forza dietro le quinte, e la violenza sociale si scatena sotto l’orizzonte dell’impero del Bene. La femminilizzazione delle élites e il ruolo acquisito dalle donne nel mondo del lavoro non ha reso quest’ultimo più affettuoso, più tollerante, più attento all’altro, ma soltanto più ipocrita. La sfera del lavoro salariato obbedisce più che mai alle sole leggi del mercato, il cui obiettivo è accumulare all’infinito lucrativi ritorni sugli investimenti fatti. Il capitalismo, si sa, ha costantemente incoraggiato le donne a lavorare al fine di esercitare una pressione al ribasso sul salario degli uomini.

 

Ogni società tende a manifestare dinamiche psicologiche che si possono osservare anche a livello personale. Alla fine del XIX secolo regnava frequentemente l’isteria, all’inizio del XX secolo la paranoia. Nei paesi occidentali, la patologia più corrente oggi sembra essere un narcisismo di civiltà, che si esprime in particolare nell’infantilizzazione degli agenti, in un’esistenza immatura, in un’ansia che porta spesso alla depressione. Ogni individuo si prende per l’oggetto e la fine di tutto, la ricerca del Medesimo prende il sopravvento sul senso della differenza sessuale, il rapporto con il tempo si limita all’immediato. Il narcisismo produce un’ossessione di auto-generazione, in un mondo senza ricordi né promesse, in cui passato e futuro sono egualmente ripiegati su un eterno presente e in cui ciascuno assume se stesso come oggetto del proprio desiderio, pretendendo di sfuggire alle conseguenze dei propri atti. Società senza padri, società senza punti di riferimento! [Alain de Benoist]


 

Esperienza esteriore

I grandi eventi storici riescono ad acquistare maggiore autonomia, separandosi dall’organico e sfoderando un volto ferreo che ci fa subito capire come, nel compierli, l’uomo altro non fu che uno strumento di una ragione più alta. Il sottofondo spirituale della costruzione delle piramidi, le innumerevoli sofferenze, la tanta felicità andata perduta insieme alle esperienze dei regni e dei re – di tutto questo non è rimasta traccia. Eppure, ancora oggi la vista di queste masse di marmo ci sconvolge: da esse, al netto del lato umano, emana una volontà grande e solenne.

 

Consigli di un padre

“Figlio  mio”  – aveva  detto  il  gentiluomo  guascone in quel puro dialetto del Bearn del quale Enrico IV  non  era  mai  riuscito  a liberarsi  – “figlio mio,  questo cavallo è nato nella casa di vostro padre saranno tra poco tredici anni,  e da  quell’epoca  è  sempre stato  della  famiglia:  questo  solo  deve  rendervelo caro.  Non vendetelo mai,  lasciatelo morire di vecchiaia,  tranquillamente e onoratamente: e se andrete in guerra con lui, trattatelo bene come fosse un vecchio servitore. A corte”  -continuò il signor d’Artagnan padre – “se pure avrete l’onore di esservi ammesso,  onore al quale, d’altronde,  vi dà diritto  la  vostra  vecchia  nobiltà,  portate degnamente il vostro nome di gentiluomo,  nome che è stato portato con onore dai vostri antenati da più di cinquecento anni.  Per voi e  per  i  vostri  intendo riferirmi ai parenti e agli amici – non sopportate offese se non dal Cardinale  e  dal  Re.  E’  solo  col proprio coraggio,  mettetevelo ben in mente,  che ai nostri giorni un gentiluomo può farsi strada.  Chiunque abbia un solo attimo  di paura  lascia forse sfuggire l’esca che,  proprio in quell’attimo, la fortuna gli tendeva.  Voi  siete  giovane  e  avete  due  buone ragioni  per  essere  coraggioso: la prima che siete guascone,  la seconda che siete mio figlio. Non temete le occasioni e cercate le avventure. Vi ho fatto insegnare a ben maneggiare la spada,  avete un garretto di ferro e un polso d’acciaio; battetevi per qualunque ragione; battetevi tanto più ora che i duelli sono vietati, e che, appunto  per questo,  ci vuole doppio coraggio a battersi.  Figlio mio,  non posso darvi che quindici  scudi,  il  mio  cavallo  e  i consigli  che  avete  ascoltati.  Vostra  madre  vi  aggiungerà la ricetta di un certo unguento (che ebbe da una zingara)  miracoloso per guarire qualunque ferita che non tocchi il cuore. Approfittate di tutto ciò e vivete sempre felice e per molti anni.” [Alexandre Dumas]

Pensieri notturni di fine impero

Tutto ciò che quest’Occidente svuotato compie giorno dopo giorno non presuppone né cultura né carattere, che recano danno all’automatismo. L’assenza di cultura e di carattere sono dunque non un limite, ma il grado di massima efficienza dell’individuo inserito in questo sistema automatico di usura e consumazione. In questo scenario decadente e sbrindellato il potere è messo all’incanto, e se lo aggiudicano coloro i quali danno ali alla propria insignificanza con più forte volontà.

Il buio di Gaza

 

“Nessun paese sotto attacco”, ha dichiarato il segretario di Stato americano John Kerry a commento delle operazioni militari israeliane a Gaza, “resterebbe immobile […] Israele ha tutti i diritti del mondo di difendersi”.

Tale punto di vista è condiviso da larga parte dell’opinione pubblica israeliana: l’esistenza a pochi chilometri dalle maggiori città israeliane di un’organizzazione, Hamas, che sovente ha colpito in maniera indiscriminata i civili e che ancora oggi mantiene nel suo statuto fondante (del 1988 – molto diverso dal suo più recente programma politico) la volontà di distruggere lo Stato di Israele, è un affronto che pochi tra quanti criticano l’establishment israeliano sarebbero disposti ad accettare.

La maggioranza degli israeliani percepisce dunque l’operazione “Margine protettivo” come un’azione difensiva.

Il rapimento e l’uccisione di 3 giovani ragazzi israeliani dello scorso 12 giugno sono considerati in questo senso le ultime di una serie di provocazioni cui non si poteva non reagire: “Israele non ha scelto questa guerra”, ha dichiarato lo scorso 20 luglio il premier Benjamin Netanyahu, “continueremo a lottare fin quando dovremo”.

Questi aspetti, per quanto significativi, offrono tuttavia solo una visione parziale dell’attuale tragedia.

Il 44% della Striscia di Gaza, 40 chilometri di lunghezza per 12 di larghezza, è stato dichiarato in questi giorni “zona militare-cuscinetto” dalle autorità israeliane: i suoi circa un milione e 800 mila abitanti hanno scarse possibilità di movimento.

La popolazione è in larga parte composta da famiglie di profughi.Molte di esse furono espulse nel 1948 da Najd, Al-Jura e al-Majdal (odierne Or HaNer, Sderot e Ashkelon, quest’ultima, una città di origini canaanite, includeva fino al 1948 al-Majdal) e trasportate con autobus nei campi e nelle città che compongono l’odierna Striscia di Gaza.

Una popolazione già provata da decenni di privazioni – l’asfissiante blocco di Gaza risale al 2007, ma l’area è sotto controllo israeliano da ormai 47 anni – è costretta a utilizzare un’unica, inquinata, falda acquifera e a vivere in uno stato di completa dipendenza.

Lo spazio aereo, l’area marittima e le relative risorse energetiche (gas), l’energia elettrica (l’unica centrale presente nella Striscia è stata bombardata), nonchè gli spostamenti tra Gaza e la Cisgiordania (parti di una “singola unità territoriale”), sono sotto esclusivo controllo israeliano.

Il 53% della popolazione nella Striscia ha meno di 18 anni: significa che più della metà degli abitanti di Gaza nel 2006, quando Hamas vinse democraticamente le elezioni, non avevano diritto di voto.

Diversi analisti collegano l’attuale escalation all’omicidio dei 3 ragazzi israeliani, su cui sono emersi finora pochi particolari. La tesi è difficile da sostenere. Numerosi adolescenti palestinesi sono stati uccisi nei giorni antecedenti e in quelli subito successivi a quel tragico evento. Oltre ai 9 palestinesi che hanno perso la vita tra il 12 e il 22 giugno, altre centinaia, alcuni compresi tra i 13 e i 16 anni di età, sono stati arbitrariamente arrestati.

Il “punto zero” ha dunque molto a che vedere con la scelta del quando si decide di fermare le lancette dell’orologio.

Le ragioni più profonde dell’attacco su Gaza, dalle conseguenze imponderabili per via di un quadro regionale in continuo mutamento, sono in larga parte da collegare alla volontà dell’establishment israeliano di minare una qualsiasi possibile riconciliziazione tra le fazioni palestinesi: un’eventualità che l’accordo raggiunto lo scorso aprile tra Fatah e Hamas – non osteggiato dalle cancellerie occidentali – sembrava rendere possibile.

Tale obiettivo – così come la logica sottesa ai continui fondi per la costruzione o l’allargamento degli insediamenti in Cisgiordania – è finalizzata a prevenire la creazione di uno Stato palestinese autosufficiente: una strategia che nega un futuro a milioni di persone.

A dispetto di alcune dichiarazioni estemporanee registrate nel corso degli anni, lo statuto del Likud del 1999 (mai abiurato nei suoi principi di base) resta molto attuale: il partito del premier Netanyahu, in maniera speculare, mutatis mutandis, alle frange estremiste di Hamas, “rifiuta la nascita di uno Stato arabo palestinese a ovest del fiume Giordano”.

Un simile rifiuto è riscontrabile anche nelle parole pronunciate da numerosi esponenti dell’attuale governo israeliano, incluso il ministro dell’Economia Naftali Bennett, leader del partito HaBayit HaYehudi: “Non c’è spazio nella nostra piccola ma stupenda terra dataci da Dio”, ha dichiarato Bennett nel suo primo discorso alla Knesset (12 febbraio 2013), “per un altro Stato”.

Alcuni studiosi ritengono che tale considerazione sia smentita dal fatto che Israele si è ritirato dalla Striscia nel 2005. L’allora premier Ariel Sharon evacuò 7 mila coloni da Gaza. In quegli stessi giorni, tuttavia, ne insediò decine di migliaia in Cisgiordania. “L’evacuazione degli insediamenti di Gaza”, notò Eyal Weizman, “è parte della medesima logica alla base delle soluzioni unilaterali di sicurezza nazionale riscontrabili negli insediamenti stessi: perpetuare e intensificare animosità e violenza, piuttosto che annullarle”.

Il carico di morte registrato in questi giorni porta con sé una precisa lezione: sebbene appartenenti a due realtà che per molte ragioni non possono essere poste sullo stesso piano, gli estremisti di entrambi le parti si alimentano e hanno bisogno gli uni degli altri. Una percentuale rilevante degli israeliani e dei palestinesi ha investito un enorme carico di energie nel tentativo (riuscito) di disumanizzare l’altro: questi ne sono i risultati.

Un simile vicolo cieco richiede un deciso intervento multilaterale e condivise forme di pressione a supporto dell’autodeterminazione di entrambi i popoli e dei principi contenuti nella “Arab Peace Initiative” del 2002 (riproposti poi nel 2007).

Esistono due alternative a un approccio di questo tipo. La prima è rappresentata dal nefasto unilateralismo che entrambe le parti hanno mostrato in innumerevoli occasioni. La seconda è ciò che il filosofo israeliano Martin Buber definì un “monologo travestito da dialogo”, ovvero un dialogo “in cui due o più uomini riuniti in un luogo, in modo stranamente contorto e indiretto, parlano solo con se stessi e tuttavia si credono sottratti alla pena del dover contare solo di sé”.

Buber scrisse queste parole nel 1947. Nel 2014 appaiono più attuali che mai.

di Lorenzo Kamel

Sulle orme di Roma

L’attualità dei riferimenti di Evola a Roma, ed anche al germanesino, va ricercata oltre le contingenze storiche. I valori proposti da Roma, dalla tradizione nordica o indiana, sono i medesimi cui fa riferimento, ad esempio, la tradizione giapponese, o le tradizioni dei popoli amerindi.

Si tratta di valori universali immuni dalle trasformazioni etiche indotte dall’incapacità, da parte di alcuni o di molti, di vivere tali valori e dall’opera di dissoluzione prodotta da sistemi culturali anti-tradizionali.

La sfida non sta nel proporre quei valori CONTRO la storia (è questa la tendenza neo-pagana) ma di innestarli NELLA storia, nel presente.

In questo senso, affermare che il Cristianesimo ha distrutto il mondo romano significa negare la perennitas di Roma di cui non l’uomo è garante, ma Dio.

Occorre saper vedere, oltre i segni esteriori di decadenza, la presenza vivente, nel depositum fidei, di valori metafisici immuni dal decadere, eterni e immutabili, capaci di trasformare il mondo e la storia.

Nel passaggio da una forma tradizionale all’altra, quei valori sussistono. La sfida consiste ne riconoscerli e nell’incarnarli nella propria vita. [Prof. Mario Polia]

Balene spiaggiate

lettera aperta a una comunità

 

Caro direttore,

il rischio che corre chi s’inserisce dall’esterno a metà di un dibattito è duplice: o ripete cose già dette, oppure risulta stonato (e quindi a tratti incomprensibile). Io con questa mia lettera credo di correre tutto intero il rischio, essendo sicuro di riuscire stonato, senza poter escludere d’essere noioso.

Ma non riesco a esimermi dall’esprimere una mia opinione in merito alle elezioni imminenti, in nome del legame che ho con la mia terra, con la mia città e i miei concittadini.

 

Ho lasciato Potenza vent’anni fa, ma non mi è mai stata data occasione di pentirmene. L’avere anteposto sin da adolescente, per ragioni meramente ideologiche, l’essere italiano all’essere potentino mi ha aiutato a lenire certe ferite, ma non a rimarginarle del tutto.

 

Prima gli anni universitari a Bologna, poi gli albori nel mondo del lavoro in Emilia, poi il master (sovvenzionato dalla Regione Basilicata), poi Roma, un vero posto di lavoro, gli USA, di nuovo Roma, la cosiddetta carriera, fino poi alla dirigenza, la famiglia, i figli, in un crescente fortunato climax, percorso controcorrente, rispetto alle crisi generazionali, economiche, culturali e di valori. In mezzo, una cocente domanda alla Regione Basilicata per una nomina che sembrava su misura per me, alla quale la Regione non s’è manco degnata di dare risposta.

 

Ed eccomi a guardare dunque le sorti della mia città, da romano, con quel distaccato attaccamento che sempre ha contraddistinto il mio rapporto con la mia comunità.

Premetto subito – tanto per essere chiari – che se votassi a Potenza, al Comune voterei senza indugi per il mio amico Alessandro Galella. Per le ragioni che mi accingo a spiegare, nel tentativo di tener ben distinto il personale dal generale.

Sia chiaro, però, che ergo Alessandro a simbolo, archetipo, funzionale a un ragionamento di più ampio respiro. Avrei potuto prendere ad esempio Annalisa Pavese, Antonio Vigilante o i pochi altri, tra i tanti candidati, che riportano le sue stesse caratteristiche.

Ma perché loro e non altri (a sinistra), altrettanto amici, onesti e rispettabili?

Cerco di spiegarlo.

Tra i pochi nella mia cerchia ad aver compiuto – se così possiamo dire – un percorso professionale senza dover ringraziare nessun notabile, mi sento in dovere di togliere qualche sassolino dalle mie scarpe (e forse da quelle di un’intera generazione di potentini, imbavagliata dalle minacce di natura clientelistica, che tutt’oggi contraddistinguono le gang che si dividono il potere cittadino e regionale).

Guardandola con cadenza regolare, ma con sguardo quasi da turista, la città negli ultimi vent’anni è inequivocabilmente peggiorata, sia sul profilo urbanistico, che umano, sociale ed economico – e converrà con me che non era facile peggiorare l’indecenza del buio corso Fierro-Sampogna-Potenza-Fierro bis. Ma il decennio di Don Vito (Santarsiero-Mancusi) ha segnato il passo in maniera definitiva e inesorabile, inferendo un colpo letale al tessuto sociale, architettonico-urbanistico ed economico della nostra comunità.

Tralasciando le incidenze che hanno inevitabilmente avuto i flussi di carattere nazionale e mondiale (come ad esempio l’assottigliarsi dei torrenti di denaro pubblico, divenuti ormai piccoli insignificanti rivoli e la carenza di terremoti degni di nota), non possiamo comunque non prendere atto di un sostanziale abbassamento della qualità della vita, che ci vede in fondo alla classifica nazionale, in compagnia di altre realtà del sud che possono quantomeno accampare come attenuante la morsa della malavita organizzata (o forse sarebbe meglio dire disorganizzata) che le ottenebra.

Qual è dunque il perché di tanto declino inesorabile?

A voler parafrasare Einaudi, potrei affermare che, pur avendo conosciuto le amministrazioni locali del paese in lungo e largo, non sono ancora riuscito a trovare nulla che potesse esser detto a favore di una cosa così comica, così camorristica come questa sorta di combriccola di massoncelli nostrani, che sulle solide basi di un clientelismo culturale (e virale) ha annichilito le possibilità di crescita o di rinascita di una terra, di una città e di intere generazioni di potentini e di lucani.

Dopo il tansfer di voti dal grande serbatoio della Democrazia Cristiana a quella ch’è divenuta una sorta di balena rosa, la sinistra lucana (e potentina) non ha avuto la grazia e l’intelligenza (né la forza) d’istaurare un rapporto di “baratto” – come lo definiremmo pasolinianamente – con le pre-esistenti corruttele mafiose (o meglio sarebbe dire mafiungelle).

La sinistra lucana non è divenuta dunque quel “Paese Separato e confinante”, che poteva permettersi di avere rapporti diplomatici stretti col potere effettivo, corrotto e inetto. Bensì è divenuta essa stessa il potere corrotto e corruttore. Nessuna “alleanza” tra due Stati confinanti, dunque – sempre per continuare con la metafora pasoliniana – quanto un vero e proprio innesto di mafia nel fragile organismo della sinistrella (cittadina e regionale), che ha prestato la propria faccia pulita al servizio degli sgherri colombiani.

E qui vengo al nocciolo.

A Potenza e in Basilicata è in corso processo del male che congloba il bene, del corrotto che infetta il puro. Un processo che continua imperterrito nel tempo – come nell’esempio fresco fresco del (candidato) sindaco Petrone, persona eccellente e rispettabilissima sotto il profilo morale e umano, ma già screziata (politicamente ed esteticamente) dalle prime immagini al fianco dei Fierro, dei Potenza e degli Scaglione, che inesorabilmente ne incrinano la freschezza (e forse anche la rettitudine percepita).

E di esempi ce ne sarebbero a decine, compreso, se vogliamo, quello del più alto in grado, il nostro high potential Robertino Speranza, che per via di questo meccanismo perverso s’è dovuto far carico in diretta tv pure del rimbrotto del grillino (allo sbaraglio) Di Battista (che ha avuto agio di abbaiargli un «le persone come te sono schiave di potere») .

Come un tumore, quindi, i vecchi poteri attaccano inesorabili anche le parti sane, riducendo l’organismo a una larva.

Morta la grande Colomba bianca – indimenticabile lo scatto dell’inchino di Don Vito d’innanzi al suo feretro – restano solo macerie e attori insignificanti. La sinistra (che poi di sinistra non ha più nulla), forte dei suoi poteri occulti, ben radicati sul territorio e nelle menti, recluta persone per bene, piegandole ai propri scopi. I risultati bulgari tolgono ossigeno alla democrazia cittadina, l’alternanza resta una chimera irraggiungibile. Sembra passata una vita dai braccialetti-normografo di Angioletto Sanza, ma invece sono solo passate molte vite umane.

Non mi aspetto, tuttavia, che votando chi è fuori dal sistema clientelare si possa cambiare di colpo in meglio alcunché. La strada è lunga e tutta in salita. Ma credo che un voto che colmi il vuoto di alternative, possa essere propedeutico a una ripresa morale, prima che economica e sociale. Dovrebbe essere auspicabile anche dalla parte sana (che è consistente) che ancora si ostina a riconoscersi in questo stagno politico, che è il PD in Basilicata.

Su scala nazionale la sinistra ha esaurito la sua carica emotiva, e con Renzi premier anche l’egemonia intellettuale scricchiola. Ci sarà ancora qualche fuoco di paglia, poi l’implosione.

Dico ai miei concittadini, ad Alessandro in primis, che è meglio votare (come al solito) per chi reputiamo meno peggio, ma questa volta FUORI da quell’insieme nefasto e corrotto fino al midollo (nel quale riconosciamo esserci purtroppo anche persone per bene).

Negli altri schieramenti non troverete forse nessun politico di razza. Ma state tranquilli che non ce ne sono neppure nel PD. Occorre provare a sbloccare il meccanismo amministrativo e sociale. Occorre una rottura. Da questa parte (ovunque fuori dal PD e dai suoi satelliti) non ci sono affatto giganti, ma ci sono i sorrisi, la volontà, la serietà, l’energia nuova e l’amore per questo luogo e per questa comunità. Siamo in tempi di ricollocazione politica e ideologica. Il ruolo di chi fa politica non è quello di ridare spessore a una delle tradizionali componenti del panorama politico, bensì quello di trovare nuove sintesi. Si tratta di proporre una nuova scelta di vita, che consenta alle generazioni venture di sottrarsi al tacco dei potentuncoli locali.

Tenendo a mente che chi avrà l’onere di entrare nel palazzo non deve farlo con l’intento di andare a disputare agli abitudinari i resti insipidi di un sudicio banchetto. Anche se talvolta transiteranno per quelle stanze, dovranno ricordare che il loro posto è fuori di là, all’aria aperta, in vigilanza attenta e sicura. Col sorriso sulle labbra, lontani per sempre da quell’ingrigimento bigotto, che ha fatto di Potenza una delle città più meste d’Italia.

Finora quelli come Alessandro sono stati i soli a interpretare la città in modo diverso, da domani avranno anche il compito di iniziare a cambiarla.

Auguro ad Alessandro e a tutti coloro i quali saranno eletti nelle liste fuori dal “cerchio magico” d’imparare in fretta a saper avere tenacemente torto. La città è piena di gente che ha ragione: è per questo che marcisce!

Buon lavoro!