


Dobbiamo a malincuore constatare che l’Unione Europea dei 27, parvenza di un’Europa politica, è attualmente soltanto un’ “espressione geografica” tra la Russia e il Mediterraneo: una vera e propria nullità sul piano geopolitico. Dal punto di vista geostrategico, invece, essa costituisce la testa di ponte degli USA lanciata sulla massa euroafroasiatica. Per quanto riguarda poi il proprio stato di salute economico e finanziario, i Paesi dell’Unione possono vantare il primato di aver distrutto, nell’arco di appena due decenni, un equilibrio sociale – precario e debole quanto si voglia e certamente bisognoso di sostanziali e radicali correttivi. Un equilibrio che, tuttavia, giacché imperniato sullo stato sociale, costituiva un poderoso elemento di coesione nazionale ed europeo, nonostante le tensioni pure gravi che hanno costellato la storia europea degli ultimi trent’anni. Ma l’errore maggiore è stato quello di non aver costruito alcunché di alternativo, e neanche di prospettare un’ipotesi valida per la costruzione di un’Europa attenta alle questioni sociali ed alla stabilità economica. L’ubriacatura neoliberista, inaugurata dal thatcherismo, ha attraversato tutta la cultura “politica” dell’Europa continentale, esprimendosi, in nome di un’unilaterale concezione della “modernizzazione”, in pratiche antisociali, e, soprattutto, asservendo drammaticamente le scelte politiche e gli interessi – nazionali ed europei – alle logiche economiciste ed espansioniste del vivace ed aggressivo turbocapitalismo d’Oltreoceano. Le dinamiche economico-sociali del neoliberismo degli ultimi anni hanno avvantaggiato soltanto esigui e selezionati ceti europei e aumentato il divario tra “ricchi” e “poveri”.
Sul piano culturale, le cose non stanno di certo meglio. L’industria culturale di massa, quella che in particolare determina i comportamenti delle nuove generazioni (anche di quella parte di esse che si vorrebbe antagonista ed alternativa), appare totalmente dominata dagli stereotipi d’Oltreatlantico, come peraltro quella di élite. Le classi dirigenti europee, siano esse politiche, economiche, finanziarie o intellettuali, mallevadrici dell’american way of life, sono in gran parte cooptate nelle strutture di dominio statunitense. Il loro operato sembra dunque rispondere a egoistici interessi di casta e, soprattutto, almeno a partire dalla prima guerra del Golfo, a quelli economico-finanziari di Wall Street e a quelli strategici di Washington.
Il soft power statunitense ha vinto le ritrosie anche di quei settori della sinistra europea, in larga parte tradizionalmente antiamericana, e di quegli strati delle destre nazionali più attenti agli interessi continentali.