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E il grande vecchio della speculazione italiana se la ride sotto i baffi.

Il referendum anti-nucleare che si è tenuto il 12-13 giugno in Italia, ve lo ricordate? E’ già sparito da tutti i giornali, eh? Nessuno ne parla più, perché non serve più al suo scopo. E’ stato il tipico esempio di come un moto popolare possa essere trasformato in una rivolta giacobina.

In un periodo di sacrosanto fermento contro politiche economiche fallite, contro la disoccupazione e la perdita di speranza per il futuro, chi credeva che il voto potesse servire a mandare un messaggio alla classe politica è stato invece portato a compiere una scelta catastrofica sull’energia.

Gli elettori hanno respinto il nucleare, assicurando che in Italia non se ne parli per almeno un decennio. A urne calde, Berlusconi ha già annunciato la svolta a favore delle “rinnovabili”.

Il popolo italiano è stato raggirato e indotto a sostenere una crociata organizzata dalla fazione anglofila il cui rappresentante di spicco è il finanziere Carlo De Benedetti. Il referendum non è stato organizzato “dal basso”, ma dall’alto, da uno dei cavalli della scuderia dell’ingegnere, Antonio Di Pietro; che infatti ha reagito alla vittoria dei sì in modo anomalo (forse indotto). L’obiettivo di De Benedetti è deindustrializzare l’Italia. Il fatto che egli possieda la più grande impresa di energie rinnovabili è solo un predicato di una politica che segue l’istinto di una specie, quella oligarchica.

In questo modo l’Italia rinuncia al progresso tecnologico fondamentale e si condanna ad un futuro di energia scarsa e costosa. Oltre ad essere inferiori in termini tecnici, le rinnovabili non sono sufficienti neanche lontanamente a soddisfare il fabbisogno energetico di un paese avanzato, come sa benissimo chi osteggia il progresso economico nel nome dell’”equilibrio” o della decrescita. Si è approfittato del disastro naturale dello tsunami in Giappone per disseminare falsità a non finire sull’energia nucleare, riempiendo televisioni, giornali e manifesti elettorali con la propaganda pura. Il risultato è stato una psicosi anti-scientifica collettiva, che il Paese pagherà per molti anni a venire, proprio come successe dopo il referendum del 1987, organizzato più o meno allo stesso modo.

Gli altri quesiti referendari hanno contribuito a confondere l’opinione pubblica e a far credere che fosse un referendum per liberarci del Cavaliere. Il quesito sull’acqua, benché poco chiaro in termini legislativi, è stato oggetto di una forte sensibilità popolare (anche da parte nostra). Questa protesta contro la politica delle privatizzazioni però va vista come un messaggio forte ad entrambi gli schieramenti politici; infatti spesso il Pd scavalca Berlusconi, in fatto di privatizzazioni. Basti pensare, ad esempio, allo smembramento e svendita di pezzi dello stato, attuato da un altro gringo dei signori della speculazione, quel Romano Prodi che guarda caso si riaffaccia sulla scena politica italiana (proprio per bocca di Di Pietro). Il vero cambiamento nelle condizioni di vita  di un paese passa per una politica di intervento statale a favore delle attività produttive e delle tecnologie avanzate, come quello attuato da Franklin D. Roosevelt negli anni Trenta (per non fare altri scomodi esempi della stessa epoca), e non per il fanatico mercatismo dell’Unione Europea e del FMI.

L’istituto del referendum dovrebbe essere usato solo in occasioni importanti come ad esempio l’abrogazione di pezzi di costituzione, o provvedimenti analoghi; o meglio ancor in senso attuativo, più che abrogativo. Questo gli italiani l’avevano capito, bocciando ogni referendum dal 1996 ad oggi. La propaganda su Fukushima li ha convinti che si trattasse di vita o di morte. Ma quando veramente di questo si tratta, come nel caso dell’Euro e del Trattato di Lisbona, gli organizzatori della “volontà popolare” si guardano bene dal chiamare il popolo a votare. I coraggiosi beoti che si sono recati alle urne, quindi, con l’idea di dare una spallata a un Berlusconi già caduto, hanno solo piazzato un bel calcio nel culo del paese. 25 milioni di grazie.